Restauro e Conservazione
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Calcestruzzo e restauro: la protezione delle creste dei muri

Abstract
Gustavo Giovannoni (1912) point in favour of the best available tools of the modern science and technology, including concrete and cement, for the restoration of buildings at a ruin state.
Today, strong criticisms are moved against the use of concrete in restoration works, somebodies are asking its prohibition. Actually, many restoration works executed in between the two World Wars, gave positive results. The choice of the best materials, an expert working and emplacement and maybe skilled workers allowed many interventions to be still at a good state of conservation. The same does not occur for the restoration interventions executed in the last forty years.
In this paper, on the base of a large database, we present a critical analysis on the use of concrete and cement in this type of interventions, focusing some remarks on the protection of the top of the archaeological walls.


Articolo tratto da "Concrete2014 -Progetto e Tecnologia per il Costruito Tra XX e XXI secolo"

1 Le malte di cemento nel restauro dei ruderi
Gustavo Giovannoni (1912) per il restauro di edifici allo stato di rudere aveva suggerito l’impiego, tra le altre soluzioni, dei “più svariati mezzi della tecnica e della scienza moderna” compresi cementi e calcestruzzi1, in particolare nel caso di interventi di “semplice consolidamento”, operazione considerata “quasi completamente tecnica”.

Venti anni più tardi, la Carta di Atene (1931) confermerà la fiducia nell’utilizzo di materiali e tecnologie innovative, purché dissimulati “per non alterare l'aspetto e il carattere dell'edificio” proponendo, allo stesso tempo una diffusione della cooperazione tra conservatori e ricerca scientifica. L’anno successivo la Carta italiana del restauro incoraggerà le “opere di consolidamento, volte a dare nuovamente al monumento la resistenza e la durevolezza tolta dalle menomazioni o dalle disgregazioni”. Allo scopo di “rinforzare la compagine stanca di un monumento e di reintegrare la massa” si dovrà far ricorso a “tutti i mezzi costruttivi modernissimi […] possano recare ausili preziosi e sia opportuno valersene quando l'adozione di mezzi costruttivi analoghi agli antichi non raggiunga lo scopo”. Il ricorso alla ricerca scientifica si rivelerà utile soprattutto quando nelle strutture fatiscenti “i procedimenti empirici debbono cedere il campo a quelli rigidamente scientifici”.
La Carta Italiana del Restauro pur vietando “completamenti in stile o analogici, anche in forme semplificate” permette “aggiunte di parti accessorie in funzione statica o reintegrazione di piccole parti storicamente accertate attuate secondo i
casi o determinando in modo chiaro la periferia delle integrazioni oppure adottando materiale differenziato seppure accordato, chiaramente distinguibile…”. Nelle allegate “Istruzioni per la salvaguardia e restauro delle antichità” vengono date ulteriori indicazioni proponendo l’impiego di materiali lapidei simili (ma che “si dovranno mantenere le parti restaurate su un piano
leggermente più arretrato”), cortine laterizie (che “sarà opportuno scalpellare o rigare”) oppure l’impiego di nuovi blocchi nelle misure antiche (“usando … scaglie dello stesso materiale cementato con malta mescolata in superficie con polvere dello stesso materiale”). Le disposizioni specifiche date per la protezione delle creste si limitano al suggerimento a mantenere “la linea frastagliata del rudere” utilizzando uno “strato di malta mista a cocciopesto che sembra dare i migliori risultati sia dal punto di vista estetico sia da quello della resistenza agli agenti atmosferici”.

In questa costante ricerca della tecnologia più idonea per il restauro il cemento si troverà a svolgere un ruolo primario nella convinzione che si trattasse di un materiale di grande affidabilità sulla base, però, soltanto delle ancora scarse verifiche che fino a quel momento era stato possibile fare.

L’intervento proposto presenta i risultati di alcune osservazioni e indagini svolte su un vasto campionario di interventi in aree archeologiche e manufatti edili allo stato di rudere nei quali sono state impiegate malte e calcestruzzi di cemento. La fiducia in questi materiali è ben documentata da una ricca casistica di interventi, pur in un ambiente nel quale, come quello del restauro dei ruderi in particolare, insieme a numerosi interventi era in atto una approfondita riflessione sui metodi e sui materiali da utilizzare2. Di fatto, già dagli ultimi anni del secolo precedente, l’impiego di malte di cemento trovava una sempre più ampia legittimazione grazie alle numerose applicazione che se ne stavano facendo, soprattutto nel restauro di monumenti della maggiore importanza3. Le ricostruzioni scenografiche di Sir Evans nell’area archeologica di Cnosso e il ricorso al cemento armato ne sono un esempio significativo. Nel 1912 L. Beltrame per la ricostruzione del Campanile di S.Marco utilizzerà strutture in c.a. perché risultasse più leggero dell’originale crollato e per evitare gli inconvenienti delle rampe che avevano provocato il collasso4. Alla fine degli anni ’20 del XX secolo, il c.a. (insieme a beveroni di boiacca e fasciature esterne) sarà utilizzato su vasta scala per gli interventi al Partenone (N. Balanos) allo scopo di integrare colonne e architravi5. Da allora, il cemento, dapprima usato come limitata soluzione strutturale poi in estensione, ha progressivamente soppiantato la calce nei restauri (nelle nuove costruzioni la sostituzione è stata ancora più veloce e definitiva): alla fine degli anni 1930 quando la preparazione del Bimillenario augusteo della Romanità ha trasformato Roma, in particolare, ma tutta l’Italia e parte del bacino del Mediterraneo nel più vasto cantiere di restauro mai visto che consentirà di sperimentare, nel bene e nel male, tutte le possibili soluzioni di intervento che all’epoca si potevano immaginare. Nel dopoguerra il cemento sarà il materiale preferito per le vaste opere di ricostruzione così come dopo i tanti terremoti che hanno continuato a colpire l’Italia6. Progressivamente, sotto le nuove sollecitazioni che ogni terremoto ha provocato, le normative sono state modificate e aggiornate alla luce delle singolarità delle situazioni che si presentavano. Le soluzioni proposte però, salvo rare attenzioni alla specificità delle strutture edili tradizionali, non hanno mai messo in dubbio la necessità di ricorrere a interventi nei quali i calcestruzzi armati avessero il quasi totale predominio.

2 La protezione delle creste dei muri
In occasione di questo Convegno ci limitiamo a prendere in considerazione alcuni interventi che rientrano nell’ambito del restauro archeologico (inteso come conservazione, manutenzione e valorizzazione dei manufatti edilizi allo stato di rudere). Pur a fronte di un dibattito serrato sulla conservazione bisogna registrare, per la protezione di edifici ridotti allo stato di rudere,soprattutto se non immediatamente e facilmente riutilizzabili, una qualità mediamente non adeguata. La sproporzionata fiducia nella tecnologia e nei “prodotti per il restauro”, resine di sintesi innanzi tutto, e la spregiudicatezza di alcuni interventi (i resti antichi sono utilizzatisoltanto-o prevalentemente- come pretesto) sembra condizionare gli interventi degli ultimi decenni.
E’ singolare che mentre i termini del restauro tendono a spostarsi verso il minimo intervento, la reversibilità e la manutenzione sistematica si può verificare come una buona parte degli interventi su contesti archeologici continui a essere caratterizzata da operazioni che prediligono trasformazioni e vaste sostituzioni di parti. Queste vengono giustificate dalle “situazioni anomale” e da “necessità straordinarie” che dipendono (come evidenziano i media ma anche i rapporti ufficiali) dopo ogni crollo “imprevisto” da sollecitazioni calamitose, da uno stato di vulnerabilità diffusa sempre più avanzata e soglie di tollerabilità sempre più labili.

E’ evidente come le difficoltà di intervenire su manufatti archeologici all’aperto dipendano in maniera determinante anche dal calo di attenzioni e di impegno che si pone nella conservazione preventiva per ovviare alle brusche variazioni di condizioni che derivano dalle stesse operazioni di scavo (con notevoli differenze locali negli esiti che dipendono proprio dai metodi e dalle strategie di scavo utilizzate), dalla variabilità di condizioni in cui i manufatti si troveranno a vivere in seguito e dalle possibilità reali di assicurare loro una pratica di manutenzione ordinaria. Ancora arretrate e poco praticate sembrano le procedure di attivazione di sistemi protettivi temporanei nei periodi tra campagne diverse di scavo, quando le aree archeologiche rischiano di essere lasciate senza controllo e nei periodi di maggiore inclemenzameteorologica.

Ancor più rare sono le soluzioni per proteggere le creste dei muri durante le operazioni di scavo9 quando infiltrazioni dall’alto e variazioni delle spinte laterali, se non controllate, sono destinate a peggiorare con l’avanzare della profondità di scavo, quando l’eliminazione della terra su uno o entrambi i lati del muro può facilitare danneggiamenti con rovesciamenti di cresta, spanciamenti, slittamenti al piede o perdite più o meno concentrate di orizzontalità.

PROSEGUE IN ALLEGATO

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