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Saranno le corti di giustizia a salvare il pianeta?

Il 17 dicembre è apparsa la notizia che uno studio del Centro euromediterraneo sui cambiamenti climatici ha rilevato una potenziale correlazione tra l’esposizione ai più pericolosi inquinanti atmosferici e i livelli di incidenza, mortalità e letalità del Covid-19.

Che l’inquinamento sia un problema e la salute un diritto non è una novità. Solo di recente, però, si è visto riconoscere, grazie alle c.d. strategic litigation e all’interno del più ampio diritto alla vita, quello che è stato battezzato come il diritto al clima, anch’esso fondamentale e inviolabile, garantito dagli artt. 2 e 8 dalla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo.

 

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Il diritto ad un ambiente sano, da cui il diritto al clima prende le forme, è il medesimo diritto che ha portato l’Italia ad essere condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo per il caso Ilva e ora, con le rinnovate sembianze del diritto al clima, viene invocato energicamente nella cause promosse contro gli Stati per promuovere azioni maggiormente incisive nella lotta ai cambiamenti climatici, come hanno fatto i 6 ragazzi portoghesi che hanno fatto ricorso alla Corte europea dei diritti che chiedono la condanna di 33 Stati che non avrebbero fatto abbastanza per contrastare l’inquinamento e il cambiamento climatico. Invocheranno di certo il diritto all’ambiente sano e il diritto al clima, i promotori della causa denominata Giudizio Universale, che è stata preannunciata contro lo Stato Italiano e che verrà istruita, secondo quanto si dice, nei primi mesi del prossimo anno.

Le climate change litigation, come sono state da più parti rinominate, rientrano nel novero delle cosiddette liti strategiche (strategic litigation), ossia quelle azioni giudiziarie che hanno l’obiettivo di promuovere la salvaguardia di diritti negati o il riconoscimento di diritti nuovi o di nuovi principi, in modo da far evolvere l’ordinamento giuridico, senza aspettare che si introducano nuove normative. In sostanza, le liti strategiche sono contenziosi simbolici, esemplari, che spingono perché il diritto, inteso come “corpo vivente”, si adatti alle esigenze della società. Le liti strategiche sono dotate di una fortissima connotazione emotiva e cercano di far parlare le corti di giustizia con la voce della comunità.

Spesso le pronunce strategiche hanno la forza di stimolare la consapevolezza e l’attenzione del pubblico su una tematica sensibile, aprendo nuovi orizzonti di discussione sociale, e conducono il legislatore a prendersi in carico un tema di interesse generale, attraverso nuove norme che siano in grado di garantire le applicazioni concrete dei principi emersi dalle affermazioni giudiziarie.

Perché, bisogna ammetterlo, l’esigenza di giustizia corre più veloce delle norme, che finiscono facilmente con l’essere inadeguata e tardiva risposta a problemi che nel frattempo sono mutati.

Le liti strategiche in materia ambientale non sono sconosciute, a livello globale, ma hanno sempre avuto più che altro una connotazione economica: sono state principalmente promosse contro le imprese, accusate di danneggiare l’ambiente.

Negli Stati Uniti, a partire dagli anni ’60, si ritrova una nutrita casistica di contenziosi attinenti alla responsabilità extracontrattuale delle aziende, accusate di aver contribuito con le loro condotte a peggiorare il clima; oppure cause intentate dalle compagnie assicurative contro i danni, anche agli individui, causati dalle stesse imprese; ancora, non sono ignote azioni di responsabilità sociale contro gli amministratori, avviate dagli azionisti che non condividono le scelte di management delle società in materia di impatto sull’ambiente.

Gli Stati Uniti, come accennato, sono il paese in cui si riscontra la maggiore tendenza ad avviare liti strategiche in materia ambientale, spesso sotto forma di class action.

L’Europa, invece, è protagonista di una nuova frontiera di climate change litigation, a partire dal famoso caso Urgenda: quelle contro gli Stati, a cui viene contestato di non aver adottato misure idonee a ridurre i livelli di inquinamento. Il principio è stato affermato di recente dalla Corte Suprema olandese nel caso Olanda c. Urgenda. L’associazione Urgenda, insieme a numerosi altri ricorrenti, ha contestato la politica del governo olandese, ritenuta non sufficientemente performante per il raggiungimento degli obiettivi di riduzione dei gas inquinanti immessi in atmosfera.

I giudici, fondando il ragionamento sulle prove scientifiche della pericolosità del problema contenute nei reports dell’IPCC, hanno riconosciuto la gravità del problema e ritenuto che la condanna dello Stato non fosse contrastante con il principio di separazione dei poteri (legislativo e giudiziario).

Questo nuovo filone giudiziario si basa sull’assunto che il concetto di ambiente racchiude in sé un novero di diritti fondamentali dell’uomo, come il diritto a vivere in un ambiente sano, equo, in cui la vita di ciascuno di noi si può svolgere serena.

Invocando il diritto all’ambiente, o il diritto al clima, i cittadini, singoli o organizzati in associazioni, agiscono direttamente nei confronti degli Stati per chiedere e ottenere che siano rispettati gli impegni assunti a livello nazionale e internazionale per far fronte al problema del cambiamento climatico.

Le climate change litigation sono liti particolarmente complesse perché alcune giurisdizioni presentano degli ostacoli legali che possono impedire, o quantomeno rendere difficoltoso, il ricorso al giudizio. Questo è il motivo per cui, oltre alle associazioni ambientali, molte cause strategiche vengono avanzate nella forma della class action, anche per cercare di risolvere il problema della rappresentazione in giudizio e dell’interesse ad agire.

A questo riguardo, una interessante iniziativa è stata intrapresa dalla International Bar Association di Londra che, nel febbraio 2020, al fine di agevolare la proposizione anche da parte di singoli cittadini di cause in materia ambientale, ha redatto un “Model statute” per i procedimenti contro i Governi che non agiscono contro il cambiamento climatico. Si tratta di un regolamento (23 articoli) che fornisce una guida pratica per agire in giudizio e fare pressione sugli Stati perché intervengano per mitigare gli effetti del climate change.

C’è però un grosso ma, alla fine del nostro discorso. Non è però tutto oro quello che luccica: le liti strategiche segnalano un enorme difetto del sistema giuridico e, in particolare, una grave inefficienza delle politiche ambientali. Ed ecco il “ma”: nessun giudice potrà mai supplire ad un inadeguato contemperamento di interessi che spetta, sempre e comunque, a chi esercita il potere di governare, e ha il compito di raccogliere, ponderare e allocare i ben noti interessi generali. Il diritto all’ambiente deve essere miscelato con il diritto alla libertà economica, con i diritti civili e politici, con le istanze sociali, con la politica industriale, con l’etica pubblica, con le peculiarità del contesto, con i valori costituzionali. Le liti strategiche sono il pungolo, ma di tutto questo DEVE occuparsi la politica, nell’arena del confronto democratico. 

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